Alla fine c’è scappato il morto.
Ma dietro la cronaca emerge una storia di sfruttamento del territorio, di esclusione dei suoi abitanti dalla gestione delle risorse e del conseguente inasprimento della tensione sociale.
Un ingegnere iracheno, impiegato della società petrolifera di Nassiriya, a sud di Baghdad, è stato ucciso nei giorni scorsi da una pallottola vagante esplosa da uomini armati radunatisi ai cancelli dell’impianto energetico per protestare violentemente contro quella che definiscono la sistematica esclusione della gente del posto (ahali) dalla gestione e dal beneficio delle risorse della zona.
Why this story?
Per contribuire a stimolare riflessioni e domande sulle dinamiche di potere nei contesti mediterranei. Leggi di più…
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Sono Lorenzo Trombetta. Per 25 anni ho vissuto e lavorato dall’altra parte del Mediterraneo. Leggi di più…
Le proteste, in corso da gennaio, sono riprese intense negli ultimi giorni e sono culminate con gli incidenti in cui ha perso la vita l’ingegnere Ahmad Meshaal, descritto come “un martire” dalla direzione della Società petrolifera di Nassiriya.
A protestare da settimane sono giovani e meno giovani di Nassiriya, in particolare membri di famiglie allargate (ashira) delle zone rurali e periferiche del capoluogo del governatorato di Dhi Qar, 345 chilometri a sud di Baghdad (quasi 4 ore di auto).
I manifestanti chiedono infatti a gran voce e da lungo tempo (le agitazioni si registrano già dal 2020) l’assunzione nei ranghi della Società petrolifera di Nassiriya sia dei neolaureati come ingegneri e operai specializzati, sia di altri giovani non laureati come operai generici e addetti alla sicurezza dell’impianto.
In poche parole chiedono di lavorare in una struttura presente nel territorio dove loro sono nati, dove vivono, dove hanno studiato, dove pensano di costruirsi una famiglia.
Di fronte all’inasprirsi della tensione, la direzione della Società petrolifera di Dhi Qar ha prima aumentato il sistema di protezione all’impianto, e ha poi deciso di sospendere le operazioni “per garantire l’incolumità dei dipendenti”. Questi sono infatti stati ripetutamente bloccati dai manifestanti dall’entrare nel perimetro dell’impianto.
La società petrolifera di Dhi Qar nel suo comunicato in cui spiega le ragioni della chiusura dell’installazione energetica – una perdita di 80mila barili al giorno – criminalizza i manifestanti, senza identificarli ma definendoli come “coloro che circondano la zona”.
Nel comunicato si definisce l’impianto di Nassiriya come un’”articolazione economica nazionale” (mafsal iqtisadi watani) e si denunciano i “danni al bene comune di tutto l’Iraq”. Per i vertici della compagnia petrolifera di Nassiriya, la sospensione della produzione giornaliera di 80mila barili “causa perdite finanziarie enormi all’economia nazionale”.
La retorica ufficiale contrappone quindi la “patria” (watan) e la legalità alle attività di non meglio identificati facinorosi. I manifestanti dal canto loro, di fronte all’assenza di una prospettiva negoziale sul piano locale, si sono rivolti al potere centrale di Baghdad e hanno invocato un intervento del premier uscente, Mustafa Kazemi.
“Noi non ci opponiamo allo Stato (dawla). Le nostre richieste non sono in contrapposizione allo Stato. Chiediamo cose molto semplici”. In effetti, al di là dei titoli dei media che enfatizzano il carattere “tribale” della protesta, quel che i manifestanti rivendicano sono diritti di base: lavoro dignitoso e riconoscente delle diverse competenze (laureati, non laureati); ripristino dei servizi essenziali come fornitura di acqua ed elettricità, manutenzione delle infrastrutture cittadine.
Nelle loro rivendicazioni denunciano una pratica assai comune non solo in Iraq: l’assunzione su base clientelare e non trasparente da parte dei poteri locali e centrali di maestranze e quadri professionali in qualche modo collegati con questi stessi poteri. Lamentano una disparità di trattamento: tra chi è raccomandato dal potente di turno e ha la conoscenza giusta per essere assunto nella struttura petrolifera, e chi invece viene escluso.
Il loro argomento, nella sua semplicità, è disarmante quanto universale: se il territorio che abitiamo è così ricco (80mila barili al giorno di petrolio, per non parlare del gas naturale) tanto da aver generato una struttura di produzione così essenziale per il “tutto il paese” (kaffat al-Iraq), definita un’articolazione dell’economia nazionale, perché mai noi, abitanti della zona, fatichiamo ad avere acqua potabile, elettricità, combustibile per far funzionare le pompe idrauliche utili per irrigare la terra? Perché mai noi rimaniamo ai margini del sistema di gestione delle risorse e della distribuzione delle rendite?
E’ la domanda cruciale che soggiace oggi, come ieri, a un ampio ventaglio di “crisi” socio-economiche e politiche in Iraq, in Medio Oriente e in giro per il mondo. Crisi che poi sfociano, in un modo o nell’altro, in tensioni violente e, spesso, anche in conflitti armati.
Non è una questione di buoni contro cattivi, dove i buoni sono i manifestanti, esclusi dal quadro di assunzioni, e i cattivi sono i dirigenti della Società petrolifera di Nassiriya e i rappresentanti dei poteri locali e centrali. I primi infatti chiedono di entrare nell’attuale sistema di cooptazione e distribuzione clientelare. I secondi si trincerano dietro una retorica populista e chiamano la polizia per proteggere gli impianti. Dopo che c’è scappato il morto però.
Quello di cui c’è bisogno è invece una profonda riforma del sistema della gestione delle risorse, che sia trasparente e inclusivo, e della distribuzione, su base equa e non discriminatoria, dei proventi generati dall’estrazione e dalla vendita di queste stesse risorse.
Spunti iniziali di ricerca. Evidentemente la soluzione a tutto questo non si trova in un template prestampato diffuso da un’agenzia internazionale per lo sviluppo; né tantomeno si trova in un manuale di istruzioni di peacebuilding e conflict resolution. Bisogna prima di tutto comprendere a fondo il territorio e le dinamiche di potere che lo dominano, identificando attori attivi e passivi nei meccanismi di negoziazione e di esercizio dell’egemonia locale.
Lo schema interpretativo con cui leggere questa storia è presentato nella Seconda parte del volume “Negoziazione e potere”, da pagina 108.
In via estremamente preliminare si può 1) definire e identificare le “risorse” del territorio, non limitandosi a quelle materiali ma anche ad altro tipo, come la conoscenza tecnica in possesso di individui o gruppi di persone o come la fiducia esistente tra due o più entità dell’area; 2) fare una mappatura, anche grossolana, delle entità collettive e degli individui che a Nassiriya e dintorni sono coinvolti e hanno interessi, a vari livelli, nella gestione delle risorse (nel senso più ampio del termine) e nella distribuzione dei servizi; 3) tracciare uno schema sia dei rapporti interni tra i vari attori locali sia delle relazioni tra le entità locali e quelle dei contesti esterni collegati come, per esempio, le istituzioni governative centrali e entità finanziarie o politiche straniere.